venerdì 1 novembre 2013

Come la sinistra colpevolista ha montato un caso ideologico sui Marò


marò

Noi che ci occupiamo dei due fucilieri del San Marco sin giorno del loro arresto e ne abbiamo seguito le vicissitudini per filo e per segno, ci siamo sempre posti una domanda alla quale finalmente riteniamo di poter rispondere: come fa la sinistra italiana ad essere così sicura della colpevolezza dei Marò tanto da invocare per essi una condanna esemplare e per di più comminata dalle loro “povere vittime indiane” e non dal giudice naturale che in questo caso sarebbe un tribunale italiano? Intanto ci sentiamo di obbiettare circa la richiesta di esemplarità della punizione. 

Le condanne non dovrebbero essere mai esemplari, cioè vendicative, perchè dovrebbero essere sempre comminate sì con rigore, ma secondo giustizia e nel pieno rispetto dei diritti alla difesa degli imputati. Sono i regimi autoritari, i dittatori che comminano sentenze “esemplari”, per governare nel terrore con la logica che ne “colpisci uno per educarne mille”, che appartiene alla cultura marxista ed alla sinistra in genere, anche se obbiettivamente non in modo esclusivo. Tra l’altro, va sottolineato che affidando alla presunta vittima e non al giudice naturale il compito di comminare la pena “esemplare”, di fatto si autorizza a pretendere non il diritto ad avere giustizia, ma quello ad avere vendetta e dopo processi che rischiano di essere sommari e con sentenza di condanna già scritta sull’onda dell’emozione del fatto, nonchè condizionati dai peggiori istinti di rivalsa, senza nemmeno verificare l’attendibilità e la veridicità delle accuse. Questo è esattamente quello che sta succedendo nel caso di Latorre e Girone. Ma qual è il ruolo della sinistra nel caso montato sulla loro vicenda per processare e condannare i Marò con un processo mediatico, anzichè regolarmente ed imparzialmente condotto nell’aula di un tribunale? Qui bisogna fare un passo indietro.

Chi si ricorda della Giuliana Sgrena? Quando scriveva sul Manifesto lei insistette per andare a fare un’inchiesta sulla “resistenza” in Iraq, con il dichiarato obbiettivo di dimostrare la protervia dell’invasore occidentale crudele, sanguinario, colonialista ed imperialista in contrapposizione allo spirito di libertà che animava i poveri mujaheddin islamici. Peccato che la Sgrena si fosse dimenticata dello strazio dei 3mila morti del World Trade Centre e delle continue minacce di attentati lanciate all’Occidente da nemici dell’intera umanità annidati in quell’angolo del mondo. E peccato che non avesse fatto caso neanche a come i “poveri talebani” volessero esportare in Iraq il loro sistema socio-economico imposto in Afghanistan, dove hanno ridotto alla fame il popolo ed in schiavitù le donne, impedendo loro persino di imparare a leggere ed a scrivere, ed hanno imposto una ferrea osservanza di tutti i più cervellotici dettami della religione islamica, provvedendo a trucidare sistematicamente persone, comunità e la popolazione di interi villaggi per il solo sospetto che non si fossero allineati al loro volere fideistico, dispotico e liberticida. 

La Sgrena fu sconsigliata da più parti dall’intraprendere quel viaggio, ma lei insistette, si sentiva al sicuro, era certa che conoscendo i motivi del suo arrivo i guerriglieri islamici l’avrebbero ricevuta a braccia aperte. In effetti in un certo senso ebbe ragione. I mujaheddin l’accolsero a braccia aperte, ma solo per sequestrarla sicuri di ottenere un lauto riscatto per la sua liberazione e pubblicità gratis in tutto il mondo per il loro movimento. Era il 4 febbraio del 2005 e per loro la Sgrena rappresentò vera manna caduta dal cielo. Per intercedere per la sua liberazione si mobilitò la “sinistra intellettuale” italiana, francese, europea, mondiale, persino il governo italiano ed il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi, il governo francese ed il Papa Giovanni Paolo II in prima persona. Alla fine, i guerriglieri fondamentalisti islamici “solo spinti dall’idealismo e non dalla cupidigia per il vil denaro”, mollarono sì l’ostaggio, ma non prima di aver contato qualcosa compreso tra i 4,7 milioni di euro (fonte: Libero) ed i 6 milioni di euro (fonte : La Repubblica), ovviamente tirati fuori dalle tasche dei contribuenti italiani. La liberazione della Sgrena costò anche la vita all’eroico funzionario del Sismi Nicola Calipari che fece scudo con il proprio corpo ai colpi di fuoco amico sparati per errore contro il loro convoglio mentre la portava al sicuro all’aeroporto di Baghdad.

Ebbene, quasta signora, appena dopo una settimana dall’arresto da nulla giustificato dei Marò così scrisse sul loro conto sul sito Globalist con il quale prese a collaborare dopo aver lasciato il Manifesto:
“La questione dei due marò italiani arrestati in India con l’accusa di aver ucciso due pescatori viene sostanzialmente ridotta a una questione di giurisdizione. Hanno ucciso in acque indiane o internazionali? In quest’ultimo caso sono sotto giurisdizione italiana. Vista la reazione delle autorità italiane questo si può tradurre facilmente in impunità”.

Queste parole la Sgrena le ha scritte il 22 febbraio del 2012, appena una settimana dopo l’arresto dei Marò e senza che nulla fosse stato chiarito della loro vicenda, nè che si potessero ancora fare ipotesi su cosa fosse realmente accaduto. Lei, influente esponente di Sel e vendoliana viscerale, aveva già condannato i Marò ancora prima di sapere cosa fosse successo. Infatti non si pone neanche il problema della loro eventuale innocenza, ma pone subito l’accento sul fatto che stabilire la giurisdizione competente a condurre indagini e processo non fosse un atto di giustizia dovuto, ma una scorciatoia verso l’impunità. Solo di chi si ha certezza della colpevolezza si può dire che resta impunito se non viene condannato. Ma a lei, ed alla sinistra che la ritiene una sua autorevole ed attendibile portavoce, non si pone il problema della giustizia, ma piuttosto quello di riportare tutto dentro la stantìa ed anacronistica schematizzazione tra buoni e cattivi, ricchi e poveri, democratici e fascisti, pacifisti o guerrafondai, militari e proletari civili, sfruttati e sfruttatori. Vediamo allora come prosegue nella sua farneticante elucubrazione sui Marò :

“Ancora una volta si parla di avvertimenti, quali avvertimenti (luci, spari in aria) e contro chi? Avvertimenti che se anche ci fossero stati non sarebbero nemmeno stati compresi da pescatori che nulla avevano a che fare con logiche militari in acque non abituate ad atti di pirateria”.
Questo è falso. Persino l’inchiesta della polizia del Kerala ha stabilito che il Nucleo di Protezione Militare (NPM) a bordo della Lexie ha seguito pedissequamente le procedure previste come confermato da tutti i testimoni oculari di parte, ma anche neutrali, molti dei quali di nazionalità indiana. C’era stato un equivoco, poi risolto, in merito all’attivazione delle sirene d’allarme che i Marò avevano detto di non avere azionato, ma solo perchè quelle, visto che i pirati non si fermavano e si rischiava la collisione, aveva provveduto ad azionarle il comandante della Lexie Umberto Vitelli. Poi che i mari attorno all’India siano i più pericolosi del mondo per gli attacchi di pirati sono in tanti ad averlo constatato, da Emilio Salgari sino all’ONU, che nei suoi ripetuti rapporti sull’argomento ha dipinto una situazione di estrema drammaticità e non ulteriormente sostenibile, che nel 2011 la convinse ad approvare due Risoluzioni caldeggiate dall’India ed approvate all’unanimità in tema di contrasto alla pirateria. Continua la Sgrena:
“Per di più, non esistono regole d’ingaggio codificate per i militari a bordo delle navi commerciali, mentre la responsabilità dovrebbe essere dello Stato, in questo caso italiano, invece la nave è sotto il controllo di civili e quindi del comandante, che però non può dare ordini ai militari.

Falso e contraddittorio. Sulla nave gli ordini li dà il comandante, anche ai Marò. Solo in caso di attacco le norme prevedono chiaramente che sia il NPM a prendere il comando della nave, salvo ovviamente per quanto attiene alle manovre di navigazione. In altri termini, i Marò decidono se e quando virare, se fermarsi od accelerare e quale rotta prendere, ma poi gli ordini all’equipaggio per eseguire queste manovre li dà il comandante. D’altra parte cosa ne possono sapere di navigazione di una nave da 100mila tonnellate i Marò? Per quanto riguarda le responsabilità dello Stato, la Sgrena si dà la zappa sui piedi. Infatti, i Marò in missione, sul teatro operativo e nell’ambito del mandato ricevuto non sono responsabili verso terzi, ma solo nei confronti di chi ha loro conferito quel mandato. Quindi il processo è illegale perchè l’India avrebbe solo il diritto a denunciare lo Stato italiano, a costituirsi parte civile ed a pretendere che questo processo in Italia ai Marò stabilisca verità e responsabilità, provvedendosi a risarcire i danni eventualmente da loro provocati. E’ quello che chiediamo da 20 mesi che si faccia, ma gli indiani non ci sentono. Si aggiunge poi :

“Il problema della pirateria in mare ha indotto l’Onu a emanare una convenzione che però non prevede l’uso della forza. Tocca dunque ai singoli stati derimere la questione, non permettere, come ha fatto l’ex-ministro La Russa, l’imbarco sulle navi battenti bandiera italiana di militari – d’élite come i marò – oppure, come hanno scelto altri paesi, contractors. Come sempre i contractors sfuggono ancora più facilmente a qualsiasi regola.

Tutto clamorosamente falso. Se le Risoluzioni dell’ONU non prevedessero la legittima difesa con l’impiego di forze di contrasto durante l’attacco dei pirati, come li si dovrebbero dissuadere questi dall’abbordare, ammazzare o sequestrare? Ovvero quali altre misure che non prevedano il ricorso alla forza possono essere immaginate o previste per evitare di soccombere in un arrembaggio dove si spara addosso a persone disarmate a bordo di innocue navi commerciali? Che poi il contenzioso che Italia ed India non hanno saputo dirimere diplomaticamente tra di loro avrebbe dovuto essere portato all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che nel merito di casi analoghi vanta numerosi precedenti, noi lo sosteniamo dal 16 febbraio del 2012, cosa che invece la Sgrena esclude come soluzione.

Il caso dei marò è di estrema gravità perché sancisce il diritto di uccidere chiunque venga sospettato di poter essere un pirata: la guerra si trasferisce dai paesi sotto occupazione alle acque più o meno internazionali, poco importa. Importa solo se c’è uno stato che intende far valere la propria territorialità. Come sempre l’uso delle protezioni armate non esclude i pericoli e aumenta l’uso indiscriminato della forza.

Qui la Sgrena dà fuori di testa. Intanto non ci pare proprio che l’India attuale sia un paese sotto occupazione coloniale, come sottintende maliziosamente la Sgrena. Poi, prima che le scorte armate arrivino ad “uccidere” qualcuno occorre giungere ad un punto di non ritorno in cui non esiste più alcuna ombra di dubbio sulle reali intenzioni di un natante che ti punta dritto. D’altra parte, non è che i pirati siano soliti manifestarsi issando la bandiera con teschio e tibie su campo nero, nè che indossino la tradizionale benda nera sull’occhio sinistro. Essi si mimetizzano da pescatori, ma anche da diportisti, da subcquei, da clandestini in cerca di approdo. E quando ci si accorge che si tratta di pirati in genere è troppo tardi per sventare un abbordaggio. Capovolgendo il discorso, non diffidare dei pirati, anzi tollerarne la presenza “fastidiosa” pur di non armarsi come pretende che si facesse la Sgrena, servirebbe a tutelare la vita e l’incolumità di naviganti intenti a svolgere la loro attività in mare, inclusi i pescatori dei fatiscenti pescherecci indiani? O dobbiamo accettare che venga sancito il diritto dei pirati di depredare, uccidere e sequestrare uomini e navi per evitare che nelle sparatorie ci vadano di mezzo degli incolpevoli? Ed i marinai delle navi commerciali ed i pescatori indiani non sono tutti incolpevoli e tutti degni di essere difesi? Infine la stoccata finale della Giuliana liberata :

“Ma nei confronti dell’India ci consideriamo noi i più forti e quindi pronti a far valere l’obsoleta consuetudine dello zaino o della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati e senza nessuna velleità piratesca, del resto disarmati non lo eravamo anche noi, a bordo della Toyota Corolla quella notte del 4 marzo 2005, nei confronti dei soldati americani? Se ci siamo permessi di lasciare impunita l’uccisione di Nicola Calipari perché non dovremmo farlo nei confronti di due poveri, sconosciuti pescatori indiani?”

La malafede della Sgrena qui si manifesta nella sua interezza. Primo ammette che un militare deve rispondere solo al Paese cui appartiene, mentre appena sopra asseriva il contrario. Poi la morte dei pescatori, non solo di quei due, ma delle decine che da anni perdono la vita negli specchi di mare intorno alla penisola indiana, non è un effetto collaterale della presenza dei Marò, ma l’effetto diretto della presenza dei pirati. Se questi non esistessero, o fossero definitivamente debellati come si tenta di fare, nessun cargo se ne andrebbe in giro con scorte armate a bordo e nessuno si farebbe male, neanche quei pescatori che la Sgrena pretende i difendere lasciando liberi i pirati di scorazzare armati ed indisturbati tra il Bengala e lo stretto di Hormuz. Ma qui la Sgrena mesta nel torbido e tradisce la sua formazione culturale radicata nell’autunno caldo che diede origine alla stagione del terrorismo rosso in Italia. Negli anni ’70, i compagni incappucciati nelle manifestazioni sparavano alla polizia, che però la sinistra e gente come la Sgrena pretendeva che fosse disarmata per evitare che rimanesse colpito qualcuno di quelli che le sparavano addosso! Per quanto concerne la morte di Calipari, la Sgrena farebbe meglio a stare zitta, perchè è stata tutta e solo colpa sua, per lo stesso motivo per il quale se un genitore lascia un bambino piccolo a giocare da solo in cucina con una pentola di acqua bollente sul fuoco, se poi finisce che questa gli si rovescia addosso ustionandolo gravemente o peggio, la colpa non è del bambino.

Ora dobbiamo ammettere che pur essendosi impegnata al massimo e nonostante abbia sciorinato tutto il suo più squallido repertorio di luoghi comuni veterocomunisti, la Giuliana Sgrena non sia per niente riuscita ad impressionarci e non abbia neanche minimamente scalfito la nostra tetragona convinzione che non esiste al momento alcuna prova della colpevolezza dei Marò, mentre ne esistono diverse, solide e consistenti, a favore della presunzione non della loro innocenza, ma addirittura della loro assoluta estraneità ai fatti loro contestati. In effetti, a formare nella sinistra ufficiale italiana il convincimento della loro colpevolezza la Sgrena poco ha influito, al di là di fornire qualche indicazione di massima alla macchina del fango a lei limitrofa, sull’opportunità di strumentalizzare il caso previa la costruzione di un teorema accusatorio che “incastrasse” i Marò agli occhi della pubblica opinione nazionale e non. Per farlo bastava poco; bastava accogliere acriticamente le tesi accusatorie e le risultanze strumentali delle indagini della polizia del Kerala e sostenerne la piena validità contro tutto e contro tutti. Il solito giochetto sfascista, secondo l’ovvia considerazione che confutare aprioristicamente è più facile che ragionare, vagliare e cercare di arrivare a determinare la verità. La sinistra ha, ancora una volta come sempre quando le fa comodo, capovolto il principio fondamentale del diritto in qualsiasi democrazia : la presunzione di innocenza sino a prova contraria. Quindi i Marò sono colpevoli, non perchè abbiano sparato ai pescatori, ma perchè lo dice la polizia del Kerala e quello che dice ci piace e fa comodo per combattere l’imperialismo, il capitalismo, l’anti-islamismo, il diritto alla difesa dell’Occidente, che più questo è debole e meglio è per l’Internazionale socialista comunque ora si mimetizzi.

Ecco allora spuntare per scendere finalmente in campo l’apostolo, il vate, l’oracolo cui tutti a sinistra si sono ispirati per fare un vero salto di qualità in chiave colpevolista nell’affare dei Marò. Si tratta dello scribacchino di un blog con cornice rosso-comunista e caratteri cinesi, dal nome che è tutto un programma di China Files. Un tizio che vive a Calcutta dove si suppone non si cibi di grilli fritti, ma che viva una esistenza invidiabile in una residenza dorata sulle spalle dei compagni, servendo regolarmente giornali della sinistra che includono il Fatto e La Repubblica, ed offrendo saltuarie corrispondenze dall’Estremo Oriente all’Espresso. Un ideologo rigoroso ed autorevole dalle sue parti, uno senza emozioni, senza mai cedimenti, senza incertezze o tentennamenti, al confronto del quale il sovietico Suslov appare un annoiato risolutore di cruciverba e l’ultra-nazi Goebbels il conduttore di un noiooso talk-show. Un pensatore obbiettivamente un po’ sgangherato, ancorchè molto accreditato a sinistra dove però si sa che s’accontentano di poco, il quale risponde al nome e cognome di Matteo Miavaldi. Questi è uno dei cinque “intellettuali” di estrazione rigorosamente maoista, quindi tardivi e pigri epigoni di una sinistra un po’ datata, dèmodèe, se vogliamo dirla così, che costituiscono il gruppo “wu-ming” che ha creato un blog che vuole essere una “comunità di lettori”. 

Il materiale a quei poveri malcapitati che si avventurano nel sito sino-maoista lo forniscono gratis loro: scritti e saggi, persino romanzi, alcuni scritti dai singoli componenti il gruppo, altri scritti tutti insieme, a dieci mani. In molti si sono chiesti, ed ancora si chiedono, cosa ci sia scritto in quelle pubblicazioni, ma è difficile trovare una risposta al quesito visto che neanche gli autori lo sanno. Comunque fanno il loro “lavoro” da volontari, senza chiedere alcun compenso, ma accettano volentieri contributi con carte di credito, postpay e persino bonifici bancari relativamente ai quali espongono il relativo Iban. La tendenza culturale prevalente del gruppo sta tutta nel nome del suo sito : “wumingfoundation/giap”, dove giap non sta per Giappone, ma per Vo Nguyen Giap, il sanguinario generale nordvietnamita a cui si richiamano idealmente – perchè per loro un Che Guevara sarebbe poco – quel generale, cioè, che sterminava tutti i vietnamiti del Sud che riteneva non collaborazionisti del Nord-Vietnam comunista, cosa che la sinistra italiana ed europea ha sempre pietosamente nascosto, ma che è entrato nella leggenda di certe cosche rivoluzionarie perchè agiva come unabomber e nascondeva bombe a mano e micidiale esplosivo in oggetti all’apparenza innocui, come bambole, giocattoli, lattine di Coca Cola, bottiglie, radioline e così via. In questo modo “intelligente” fece saltare in aria centinaia di ingenui ed inesperti ventenni americani spediti in faccia ai viet cong, senza troppe raccomandazioni sui rischi insiti circa le operazioni condotte nella jungla tropicale vietnamita, da autentiche icone dei movimenti democratici mondiali, da noi rappresentati dal PCI, come il mitico presidente USA J.F. Kennedy, un “pacifista” talmente innocuo e pacifico che s’inventò la guerra del Vietnam, ed il suo degno successore Lindon Johnson, entrambi espressi dal partito democratico.

E’ a lui, a uno come Matteo Miavaldi che si ispira a Giap che il Fatto Quotidiano, la Repubblica e l’Espresso si sono rivolti per cercare di smontare le tesi innocentiste portate avanti da chi come noi, o Tony Capuozzo od altri opinion makers od analisti neutrali come Alfredo D’Ecclesia cerca di ricostruire obbiettivamente la realtà fattuale, non quella che fa comodo per sostenere tesi precostituite. Miavaldi aveva ricostruito la vicenda dei Marò appena dopo la delibera della Corte Suprema di gennaio 2013 che di fatto ignora, senza nemmeno entrare nel merito e senza alcuna motivazione, il quesito di competenza giuridizionale sollevato dalla parte italiana. Una ricostruzione, la sua, molto polarizzata, in cui quello che dicono le fonti indiane viene sempre preso per oro colato, mentre le dichiarazioni dei Marò vengono sistematicamente presentate come ipotetiche o rese in malafede. Però in questa descrizione accusatoria della sinistra ufficiale ci sono tre punti deboli in corrispondenza di tre pilastri della difesa dei Marò, che per essere credibili bisogna assolutamente far saltare. 

Questi sono : la buona fede dei Marò che hanno denunciato un incidente del quale nessuno avrebbe altrimenti mai saputo nulla; l’ora dell’incidente che dimostra che il peschereccio incrociato non era il St Antony, cioè quello a bordo del quale sono rimasti uccisi i due pescatori; le risultanze delle perizie balistiche che, per quanto contradittorie e manipolate, fanno concludere agli stessi inquirenti indiani che a sparare non furono i fucili di Latorre e Girone. In effetti si tratta di punti sui quali per qualche tempo non c’è stata una assoluta certezza, diciamo che si vegetava in un limbo di incertezza, anche se tutto quanto poteva dedursi a loro riguardo era più a favore che contro i Marò. Ma è lo scorso luglio che per la sinistra colpevolista sembrò che la vicenda potesse prendere una brutta piega, cioè favorevole ai Marò, quando Tony Capuozzo e Canale 5 hanno reso di pubblico dominio l’intervista rilasciata a caldo dal comandante del St Antony ad una TV indiana nell’immediatezza dell’accaduto, che di fatto sconfessava tutte le tesi accusatorie, dimostrandone l’assoluta infondatezza. E’ a questo punto che la sinistra italiana disorientata e smarrita si rivolge trepidante all’ideologo colpevolista che vive a Calcutta, al quale si implora di trovare “un qualcosa” che permetta di rintuzzare l’attacco innocentista.

E’ allora che il buon Miavaldi fa quello che tutti gli intellettualoidi di sinistra fanno quando i riscontri oggettivi latitano e gli argomenti di discussione sono esauriti :la buttano in caciara, cioè in politichese per dimostrare con ragionamenti para-filosofici ciò che la realtà delle cose impedirebbe loro di poter dimostrare. Non potendo dimostrare che i Marò sono colpevoli, si smette di esaminare gli elementi di riscontro oggettivo, costruendone altri falsi od immaginari per arrivare a dimostrare la loro colpevolezza filosoficamente, per processo induttivo. Infatti, sul sito sino-vietcong-maoista di China Files ecco che il 9 luglio appare un rifacimento di Miavaldi dell’analisi della vicenda dei marò che esordisce così:

“L’ingarbugliata vicenda dei due marò in India è la cartina al (al sarebbe di, ndr) tornasole di un’Italia afflitta da due enormi fardelli che, nel 2013, rappresentano un handicap insostenibile: un rapporto irrisolto col nostro passato fascista e la superficialità degli Esteri sui nostri giornali……(Omissis) 

L’esaltazione acritica delle forze dell’ordine e dei militari, immacolati ed innocenti per definizione, nel caso dei due marò ha trovato facile sponda nel rigurgito fascistoide che contraddistingue una cospicua minoranza del nostro paese (Minoranza? Ma li ha letti i risultati elettorali? ndr). La tesi, facendo una media ragionata delle conversazioni da bar, è pressapoco (strano per un intellettuale omettere una delle tre p necessarie nel vocabolo. Persino il Corsera ammette che non si scrive pressapoco, ndr) questa: i marò erano in missione antipirateria con mandato Onu (una missione Onu su petroliere civili?!), potranno anche aver sbagliato, ma erano in buona fede ed in acque internazionali, l’India si sta accanendo contro di noi perché è una potenza economica, l’Italia subisce perché c’è la crisi e vende l’onor patrio per contratti commerciali come Finmeccanica; quegli straccioni degli indiani vogliono solo spillarci soldi”.

Parole anarcoidi in libertà che non meritano commento, ma solo disprezzo per il ribrezzo che suscita il loro putridume. Solo richiamiamo l’attenzione sull’inciso di Miavaldi circa “una missione ONU su petroliere civili?” che dimostra l’assoluta ignoranza, la pochezza culturale, l’ingiustificata presunzione che caratterizza un personaggio che a sinistra ritengono una sorta di profeta. Intanto le petrolierie sì, certo che sono civili, mai inteso di petroliere militari, che nel caso si chiamerebbero navi appoggio o navi rifornimento. Ma poi ce la vedreste l’ONU ad intervenire a favore delle navi militari? Perchè il buon Matteo non si preoccupa piuttosto della sicurezza e della vita stessa di troppi “lavoratori del mare” spesso messa a repentaglio dai pirati in quei mari? O dei lavoratori loro si interessano solo per fare numero negli scioperi strumentali con i quali hanno affondato il Paese o creare dei bacini elettorali da utilizzare per preservare i loro privilegi di politicanti? Resta comunque che le ragioni per le quali i Marò sono colpevoli sono quelle sopra esposte: nessun fatto, nessun elemento oggettivo analizzato criticamente, nessuna prova, nessuna testimonianza, solo ideeologia e demagogia. E’ su queste basi che FQ, la Repubblica e l’Espresso si augurano che i Marò vengano condannati e, perchè no, impiccati in India.

Ora questa sorta di farneticanti argomentazioni va bene per molti di quelli che militano nelle fila della sinistra e che prendono ciecamente per buono tutto quello che il PD o Sel o il M5S, per non dire dell’Unità, di FQ o della Repubblica raccontano loro. Il problema è che nella stessa area politica dimorano un sacco di scocciatori, come cattolici, socialdemocratici, radicali, ex democristiani che non sempre sono disposti ad accettare acriticamente sempre e tutte le verità ufficiali costruite artificiosamente e propagandate dalla sinistra. Insomma talvolta occorre che il fumo non sia originato solo da legna bagnata che brucia male, ma anche da un po’ di carne buttata a cuocere sulla brace. Ma Miavaldi non si scoraggia. Ci mette un po’, ma alla fine trova il modo di far contente tutte le variegate componenti della composita sinistra italiana e costruisce una verità “oggettiva” ed inoppugnabile, accettabile per tutti. Come fa? Semplice: prende dei riscontri oggettivi, veri documenti ed atti dell’istruttoria keralese, e ne mistifica pretestuosamente il significato del contenuto, corredandoli di omissioni laddove sarebbe impossibile anche ad uno come lui offrire una spiegazione congrua con i fatti, o semplicemente inventando dei fatti mai esistiti. Semplice, no? Vediamo un po’.

Cominciamo dal primo punto: smontare la buonafede dei Marò riconosciuta persino dagli indiani laddove la Corte Suprema nella delibera per affidare il caso giudiziario alla NIA scrive nel capo d’accusa che i Marò “hanno sparato a dei pescatori scambiati per pirati, causando la morte di due di essi”. Così non va bene, bisogna dimostrare che i Marò erano in malafede e che sapevano benissimo che si trattasse di pescatori e che si sono divertiti ad utilizzarli per fare il tiro a segno. La presunzione di buonafede poggia soprattutto sul fatto che furono i Marò stessi a denunciare alle autorità indiane dell’incidente, specificando peraltro che nell’occasione erano stati sparati solo colpi d’avvertimento. 

Per dimostrare che i Marò erano in malafade secondo Miavaldi basta dimostrare che i messaggi di allarme relativi all’incidente sono stati lanciati dalla Lexie solo DOPO che la polizia portuale del Kerala li aveva già individuati come gli aggressori del peschereccio St Antony. Ecco allora che una corrispondenza da Calcutta di Miavaldi, pubblicata lo scorso 9 luglio sull’Espresso, sotto il presuntuoso aspetto di una inchiesta dal titolo “Marò in India, le balle di Canale 5″ Miavaldi procede alla criminalizzazione artificiale dei Marò, in vitro, nel suo laboratorio del fango. Allo scopo esibisce due documenti originali, allegati agli atti del processo, due e-mail. La prima partita dalla Lexie alle ore 19.16 locali, diretta alla società armatrice F.lli D’Amato ed al MSCHOA (Maritime Security Centre, Horn of Africa) che coordina le attività antipirateria dei NPM, in cui si rapporta dell’incidente avvenuto; la seconda e-mail è di 20 minuti dopo, delle 19,36, e contiene indicazioni fornite dagli indiani sul da farsi a seguito del fatto denunciato. Sembrerebbe tutto in ordine, parte la denuncia, arriva di ritorno la reazione degli indiani. Ma Miavaldi è un furbacchione di tre cotte e dimostra che le autorità indiane sapevano dell’incidente ben prima delle 19,16, ora in cui l’hanno denunciato i Marò, che sono stati costretti ad inviare quella e-mail per tentare di costituirsi un alibi ed un’aureola di buona fede dopo essere stati identificati come gli aggressori. Infatti Matteo da Calcutta “scopre” che nella e-mail arrivata dopo quella spedita dai Marò, c’è scritto “facendo seguito alla teleconferenza delle 13.30 utc…”. Ora l’ora utc è quella del meridiano di Greenwich-Londra e differisce di 5 ore e mezza da quella indiana, per cui le 13.30 circa sono le 19.00 ora locale dell’India. Ergo, Miavaldi fa la stupefacente scoperta che la capitaneria di porto del Kerala sapeva già dell’incidente un quarto d’ora prima che lo denunciassero i Marò, i quali hanno mentito su questo punto, ergo sono in malafede.

I pifferi di montagna, che pure furono suonati, erano meno sprovveduti del buon Matteo al quale tutti credono, perchè la sua scoperta è stata ripresa e trionfalmente sbandierata con grande risalto, oltre che dall’Espresso, anche dal solito codazzo di pennivendoli che include, ma non si limita a, FQ, La Repubblica ed il Corsera. Per fare sembrare vero il suo asserto Miavaldi commette un falso ed una omissione gravemente tendenziosa. Il falso è che la e-mail alla Lexie non la spedisce la Guardia Costiera del Kerala, come lui afferma nell’articolo sperando che nessuno ci faccia caso, ma l’MRCC di Mumbai (ex Bombay), che è il centro internazionale della zona indiana dell’IMO – International Maritime Organization – una agenzia dell’ONU, che come Centro per il coordinamento del recupero e soccorso in mare, svolge attività per la sicurezza della navigazione, un ruolo che nulla ha a che fare nè con la guardia costiera keralese, nè tanto meno con gli inquirenti della polizia portuale che si è inizialmente occupata del caso Marò. Basta leggere il mittente della e-mail per rendersene conto. L’omissione grave e voluta in malafede è che la stessa e mail si conclude con l’invito alla Lexie di avvertire la Guardia Costiera keralese dell’avvenuto incidente, suggerendo altresì l’opportunità di indicare alle autorità locali del Kerala l’ETA, cioè l’ora stimata per l’arrivo nel porto di Kochi. Il testo della e-mail prodotta da Miavaldi è un boomerang che distrugge la sua tesi perchè dimostra che ancora alle 19,36 la Guardia Costiera non era affatto informata dell’incidente, tanto che l’MRCC chiede alla Lexie la cortesia di avvertire le autorità portuali, forrnendo loro addirittura due numeri di telefono ed il canale radio da utilizzare per il collegamento. Miavaldi respinto con perdite, basta leggere la e-mail per convincersene facilmente, ma quanti a sinistra lo avranno fatto?

Nella stessa “inchiesta” Miavaldi tenta di smantellare pure la tesi secondo la quale gli orari non coincidono, per cui si può escludere addirittura che il St Antony e la Lexie siano mai venuti a contatto. La prova fondamentale è un video recuperato da Tony Capuozzo da una TV indiana, in cui c’è l’intervista rilasciata a caldo dal capitano del St Antony appena sbarcato nel porticciolo di Neendakara a notte fonda, verso le 23.30, un dettaglio quest’ultimo di fondamentale importanza. Che dice Freddy Bosco? Parlando in lingua malayalam afferma che il suo peschereccio è stato aggredito da una nave che gli ha sparato addosso, provocando la morte di due dei nove pescatori a bordo. Alla domanda se avesse letto il nome della nave il capitano risponde letteralmente: “No, è successo alle 21,30 circa, era buio pesto. Ho solo potuto intravedere la sagoma di una grande nave di colore nero, con banda rosso scuro alla linea di galleggiamento. Ora, una indicazione come questa fornisce la stessa quantità di informazione che fornirebbe il dire, per dare indicazioni su un albero, che aveva le foglie verdi. Infatti quasi tutte le navi commerciali hanno colore a bande nere e rosso scuro, ed in particolare ce n’erano cinque di questi colori in navigazione nella zona quella sera, una delle quali era la Lexie. Facciamo ordine e ricapitoliamo: l’incidente avviene alle 16.30 ora locale, il cessato allarme attorno alle 17.00, il contatto tra Lexie ed MRCC attorno alle 19.00, il primo resoconto dell’incidente con la sua breve ricostruzione avviene alle 19,16 con l’MRCC di Mumbai, la risposta alla Lexie dall’MRCC con l’invito a contattare la Guardia Costiera del Kerala è delle 19,36. L’incidente del St Antony è stato collocato dallo stesso responsabile del peschereccio alle 21.30, due ore dopo che tutti ormai sapevano di un contatto tra la Lexie e dei pirati. Che c’entrano allora la Lexie ed i Marò con l’uccisione dei due pescatori? 

Questa è dura da rimontare, ma a sinistra non si scoraggiano mai e l’editorialista maoista dell’Espresso, non potendo opporre dei fatti, ricorre alla psicanalisi e sentenzia : Freddy Bosco era in stato di shock. Alle 23.30, a sette ore dal fatto, un marinaio navigato come Bosco, rotto a tutte le disavventure in un mare pericoloso come quello attorno l’India, anche le più tragiche, secondo Miavaldi farfuglia frasi ripetute più volte, mischia malayalam col tamil, non è in quel momento in grado di intendere e di volere. Freddy Bosco, quindi, secondo Miavaldi s’è sbagliato, era confuso, non connetteva ed ha detto buio pesto, invece era pieno giorno, ha detto che erano le 21.30 ed invece erano le 16.30, non ha letto il nome della nave, ma poi dopo tre giorni se lo è improvvisamente ricordato: Enrica Lexie. Peccato che, qualche tempo dopo, Bosco confessi a Fiamma Tinelli una giornalista del settimanale Oggi, che il nome della nave glielo abbia “suggerito” la polizia del Kerala perchè altrimenti non avrebbero potuto incolpare i nostri Marò. E senza capri espiatori niente risarcimento di danni biologici e materiali per il capitano del St Antony. Ma questa Miavaldi non l’ha letta. Tra l’altro, il medesimo neanche si pone la domanda perchè il St Antony abbia impiegato ben sette ore, dalle 16.30 alle 23.30 a percorrere le 20,5 miglia sino alla costa, mentre scappava macchine a tutta dal luogo dell’aggressione. Un peschereccio di quel tipo ha una velocità di crociera di 9 nodi e max di 14, per cui il tempo di percorrenza delle 20,5 miglia può essere ragionevolmente assunto in un paio d’ore, un tempo che rende perfettamente coerenti l’ora dell’incidente indicata da Bosco nelle 21.30 e l’ora d’arrivo, circa le 23.30. Ma tutto questo Miavaldi non lo sa, o se lo sa l’ignora e finge di non saperlo.

Infine ci stanno le risultanze taroccate delle perizie, che invece di denunciare per la loro manomissione, Miavaldi prende per buone difendondole a spada tratta. L’anatomopatologo che eseguì a caldo le autopsie dei pescatori, il prof. Sisikala, un vero esperto riconosciuto della materia considerate le decine di perizie necroscopiche fatte sul corpo di pescatori indiani uccisi in mare aperto, stabilì che si trattava di proiettili calibro 7.65, che, qualche tempo dopo, divengono stranamente di calibro 5.65 nei rapporti allegati all’inchiesta della polizia, un calibro quest’ultimo, compatibile con le armi NATO in dotazione ai Marò. A “smontare” le accuse nei confronti degli inquirenti indiani per la manipolazione delle prove balistiche, o meglio delle loro risultanze, aveva provveduto il 5 gennaio di quest’anno Luca Pisapia sul Fatto Quotidiano, riprendendo un ragionamento in merito apparso sul solito sito Wu Ming, cioè scaturito dalla mente di Miavaldi. Per confutare la controperizia effettuata da Luigi Di Stefano, un noto perito balistico, Pisapia non elenca nè fatti concreti, nè argomentazioni attinenti all’argomento, ma si limita a distruggere la credibilità del professionista, del quale cerca di discreditare professionalmente ed umanamente la figura. Infatti Di Stefano non viene contestato per le sue controdeduzioni precise e puntuali, ma accusato di “non essere ingegnere” e di essere un fascista simpatizzante di Casapound. La prima accusa è gratuita, perchè deriva dalla ignoranza crassa degli accusatori. 

Si deve sapere che Di Stefano è stato il perito del tribunale per la strage di Ustica ed è colui che ha dimostrato che l’aereo Itavia esplose non per una bomba a bordo, ma perchè colpito da un missile dall’esterno. Siccome quella perizia “antimilitarista” alla sinistra piaceva molto, ecco che Di Stefano, che ha frequentato un corso di specializzazione para-universitario negli USA, è stato gratificato dalla stampa di sinistra del titolo di ingegnere, che lui non aveva mai millantato, traducendo male l’americano engineer che negli States designa un tecnico specialista in qualche disciplina, diplomato, ma non laureato. Adesso, siccome la contro-perizia non piace a sinistra, ecco che Di Stefano è diventato un millantatore e per di più fascista, quindi inattendibile pure se dice buongiorno alle 9 di mattina.

Tra l’altro, Di Stefano per Ustica si è potuto avvalere del recupero dei resti dell’Itavia, mantre la stessa cosa non potrà essere fatta per il St Antony che hanno provveduto a rottamare per distruggere ogni traccia dei colpi ricevuti. Visto che è così bravo, perchè Miavaldi non prova a dare una risposta a questi quesiti: perchè quando è rientrato in porto dopo la sparatoria il St Antony aveva TUTTI i vetri intatti? Eppure la prima vittima era al timone nella cabinola di pilotaggio, ergo come hanno fatto ad ucciderlo a fucilate senza rompere nessuno dei vetri che gli stavano attorno? Non sarà che non gli hanno sparato dall’alto, come dice la polizia, ma a pelo d’acqua, dal basso in alto dlla zona poppiera come testimoniato dai due bozzi sul tettuccio della cabina riferiti da inascoltati testimoni oculari? E perchè il rapporto della perizia balistica presenta cancellature sopra alle quali si è scritto a mano? E perchè gli indiani continuano a tenere prigionieri Latorre e Girone, mentre nella perizia consegnata all’amm. Alessandro Piroli della nostra Marina Militare si citano come numeri di serie dei fucili che hanno sparato non quelli corrispondenti a quelli dei due Marò accusati, ma quelli di altri due loro colleghi? Che fanno, accusano due Marò, ma detengono e vogliono processarne altri due incolpevoli che loro sanno essere tali? Provi a rispondere il Matteo Miavaldi, siamo impazienti di conoscere il suo fantastico mondo sino-viet-mao-comunista. Per il momento noi ci accontentiamo di aver dato una misura di quella che è l’intellettualità sbandierata dalla sinistra, e della perversione di una ideologia giustizialista che vorrebbe che due soldati d’Italia, sino a prova contraria innocenti, venissero condannati sulla base di elementi contraddittori ed insussistenti, non corraborati neanche da mezza prova. 

Fonte:  http://www.qelsi.it/

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