lunedì 28 luglio 2014

Lassù qualcuno vi ama


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PISA «Allora, avete capito bene? Reclinate la testa sulle nostre spalle, portate avanti il bacino, incrociate le braccia sul petto, piegate una gamba all’indietro a 90 gradi e poi saltate!». Saltare giù? Ma chi ce l’ha fatto fare. Sembra facile, a sentire Andrea e Vincenzo, «piloti» istruttori della Folgore che ci accompagnano al portellone dell’elicottero affacciato su quattromila metri di nulla assoluto. Sono appiccicati a noi, e fra qualche istante ci accompagneranno nel salto in tandem da un’altezza folle e poco consigliabile a chi soffre d’acrofobia: 4.300 metri sono tanti, tanti davvero, credeteci. Lì sotto, lontanissimi e sbiaditi come in un vecchio film rovinato dall’uso, s’intravedono campi rettangolari, strade, automobili. In lontananza il mare della Toscana, intorno solo aria fresca e qualche nuvola. Tra noi e lo schianto sul terreno a 200 all’ora - pensiamo - ci sono solo i due angeli custodi della Folgore e i paracadute piegati nel sacco color bianco sporco che indossano. Ci siamo. C’è l’ok al lancio. Assicurati l’uno all’altro a quattro ganci metallici delle due imbracature, ci avviciniamo, camminando come due geishe giapponesi, un passetto dopo l’altro. «Vai!», grida il pilota. Una «testata» all’aria e piombiamo insieme nell’abisso senza fine. Precipitiamo come sassi verso il basso, in caduta libera. Voliamo.

MARCIA NOTTURNA La nostra «giornata» con la Brigata Folgore, fiore all’occhiello dell’Esercito, comincia la sera precedente. È mezzanotte. La caserma è avvolta nel silenzio. La ragazza sale le scale trafelata, passo lesto. È in mimetica, sulle spalle ha uno zaino da 25 chili ed è reduce da una marcia notturna di dieci chilometri. «È molto pesante?» le chiediamo. La replica è lapidaria, il tono risoluto, deciso, secco come una fucilata: «Abbastanza», risponde senza lamentarsi. L’aspirante «parà» è un’allieva del Centro addestramento dei paracadutisti della Folgore nella storica caserma di Pisa, dove le regole - antiche e reiterate - sono dedizione, coraggio, sacrificio. Un percorso duro, lo stesso per uomini e donne, difficile da concludere e che vede, infatti, quasi tre aspiranti paracadutisti su dieci mollare prima della fine. «Meglio così, per loro e per chi resta», osserva il comandante del Capar, colonnello Aldo Mezzalana, facendo intendere che sul campo di battaglia - quello vero dove la Folgore combatte in teatri di guerra lontani e durissimi - chi non ce la fa mette a rischio la vita dei suoi compagni. La raccomandazione per entrare, giurateci, qui non funziona.
 
L’ADUNATA  La mattina s’apre con l’alzabandiera, dopodiché il programma ci riserva il lancio dalla «torre dell’ardimento», poi dall’elicottero, quindi un’operazione con tecniche d’addestramento e scontri a fuoco messi in atto in Afghanistan. L’esperienza è da brividi, l’adrenalina scorre a fiumi, la paura è un fardello inutile perché qui, a forza di strappi da crepacuore, tutto funziona con la precisione di un cronometro svizzero. La Folgore è il cuore palpitante dell’esercito. Entrando nei loro segreti diventa anche cervello, professionalità, sprezzo del pericolo, spirito di squadra. Merito e meritocrazia questi ragazzi sembrano possederli dalla nascita. L’obiettivo, insistono a scanso di equivoci e sballati stereotipi mediatici, non è uccidere. È proteggere il gruppo, l’uomo che ti sta accanto, la bandiera che rappresenti e che onori con l’esempio.
 
LA TORRE La torre d’addestramento è infinita per un novizio: diciotto metri. «Non guardate di sotto», ci consigliano. Veniamo imbracati, scaliamo i gradoni, ci affacciamo giù. Non è un bel vedere, no davvero. «Allora, un piede avanti, l’altro indietro e, al mio comando, salta», spiega l’istruttore. E aggiunge: «Appena ti butti, piega verso il basso il collo, sennò la cinghia ti graffia». Il lancio, infatti, è frontale, lo scivolo lungo i cavi d’acciaio è a destra, come se ci gettassero da un aereo. Le raccomandazioni servono, ma sono inutili. Siamo troppo concentrati a non vedere cosa abbiamo sotto di noi. «Via!» urla l’istruttore. E noi andiamo, incrociando le dita, pregando tutti i santi nella speranza che tutto finisca bene e presto. Giunti a fine corsa veniamo recuperati. Un’emozione pazzesca, senza precedenti, inimmaginabile.
 
VOLARE Questo è nulla. Il vero lancio deve ancora arrivare. «Salteremo da 4000 metri», ci annunciano durante il breafing in un minuscolo aeroclub popolato da parà con migliaia di voli e di missioni impossibili oltre linee nemiche che ti sparano addosso. Indossiamo tutte blu. L’elicottero ci ospita e, salito su come un ascensore impazzito, torna alla base dopo aver scaraventato tutti di sotto. Volare con la Folgore dà una goduria infinita. La paura passa presto, delle ripetizioni a terra ricordiamo poco e ci facciamo condurre con l’aria che sferza il volto, le orecchie che quasi scoppiano. Siamo in caduta libera e schizziamo come proiettili a 200-220 km fino a quando, a 1500 metri dal suolo, apriamo l’«ombrello» e dolcemente, tra virate e controvirate, ci facciamo coccolare, sospesi nel cielo, impegnati (gli istruttori) a sfruttare correnti d’aria e traiettorie. Infine, planiamo, lentamente, delicatamente. Solleviamo le gambe, l’impatto con l’erba del campo di lancio è morbido, indolore. Emozionante e divertente. Ecco, ora pensate a questi ragazzi che di notte, con il nemico annidato sui monti dell’Afghanistan o in qualche palazzo di una città in guerra, schivano razzi e mitragliate che illuminano il buio.
 
L’AGGUATO La giornata, però, non è conclusa. Ci trasferiamo nel centro di Valle Uggione, ribattezzato per l’occasione «Uggionestad», villaggio che per il durissimo addestramento odierno sorge nei boschi del «Toscanistan». Ci attende una missione sui «Lince» con i ragazzi della 5° compagnia «Pipistrelli». Il loro motto è «Silenziosi e aggressivi». L’obiettivo del training è contattare un asserito capo villaggio e stabilire buoni rapporti con la comunità del luogo. Indossiamo giubbotti antiproiettile ed elmetti. Saliamo sugli stessi blindati che per anni hanno combattuto a Nassiriya o difeso popolazioni inermi in Kosovo. Dentro, la massima è 26 gradi, non osiamo pensare come deve essere ad Herat, dove di gradi ce ne sono 40. Quel che segue è un viaggio all’inferno, con agguati veri nel bosco, bombe camuffate sotto gli arbusti a bordo strada, raffiche di mitra, lanci di granate. Le esplosioni sono fortissime, sembra tutto maledettamente vero. Si fa sul serio. Le autoblindo che sgommano e scappano, le urla nella radio quando dagli alberi partono raffiche di kalashnikov. «Attivazione, attivazione!», impreca il comandante di squadra. Il mitragliere sulla torretta del blindato risponde con la «minimi» calibro 5.56m che in pochi secondi sputa 200 colpi (a salve, in questo caso). Bossoli veri, caldissimi, cadono nell’abitacolo. Sparano tutti, un delirio. Da brivido solo a pensare di esserci davvero in situazioni così. Distesi nella polvere rimangono tre (finti) terroristi, nel Lince un soldato ferito che urla come urlano i militari che si ritrovano gambe spappolate, braccia amputate, giubbotti antiproiettile traforati da esplosivi. Il quinto mezzo della colonna - sott’addestramento - è oggetto di un attentato simulato con uno Ied (Improvised Explosive Device), che tante vittime ha procurato anche all’Italia all’inizio dei conflitti in medio oriente. Qui parte l’operazione di bonifica per scongiurare altre bombe-esca (FOTO 4-5) . Questi ragazzi si muovono come fossero telecomandati, ognuno sa il fatto suo, e nessuno resta indietro.

Ecco. Questa è la Folgore. Noi l’abbiamo vissuta come in un videogame, provando di tutto. Molti dei ragazzi che ci hanno accompagnato in quest’avventura pazzesca, in Afghanistan ci sono stati davvero, hanno schivato la morte, soccorso i compagni, salutato feretri imbandierati dal tricolore. Altri partiranno presto. Chi parla male della Folgore non sa di cosa parla.

Fonte:  http://www.iltempo.it/

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