mercoledì 23 luglio 2014

Nel "Mare Nostrum" sta annegando l'idea stessa di uomo


Sbarchi, la testimonianza dei sopravvissuti: i morti sono 180

Le continue notizie di morte che ci giungono dal Mediterraneo ci lasciano ormai senza parole. Le cronache catturano, ma non sempre, i particolari di quelle morti da consegnare ai lettori: annegati, gettati in mare, caduti accidentalmente, soffocati dentro una stiva.
 
L'immedesimazione con le situazioni estreme affrontate da queste persone riesce a muovere un po' i nostri sentimenti: siamo inorriditi oppure indignati (contro L'Unione Europea, a ragione) ma alla fine vince il silenzio. Non ci sono più parole.

E non ci rendiamo conto che proprio questa, del silenzio, è l'ultima definitiva ingiustizia che possiamo commettere. Ogni tanto qualcuno è preso dall'agitazione: bisogna muoversi, fare, agire..... Ma è un fuoco di breve durata. Domani ci attendiamo altri orrori, bisogna dimenticare in fretta.

Non dico, certo, che tutti la pensino così, tuttavia è questa l'immagine che si produce in noi davanti al susseguirsi delle notizie: un'immagine che porta alla rinuncia a parlare, a gridare. Perfino la pietà, o quella che scambiamo per pietà, sembra alla fine produrre nient'altro che cinismo.

Questo chiama in causa direttamente coloro che raccontano storie di morte che sono ormai diventate la nostra vera storia, storie che noi non sappiamo raccontare veramente, ma che al tempo stesso "ci" raccontano, dicono chi siamo, ossia gente preoccupata delle proprie cose, assorbita dai mondiali di calcio, dalla maturità del figlio o dell'azienda da salvare, che assiste impotente (non dico "indifferente": nessuno va colpevolizzato) alla risacca di un mare - dove si va a fare, giustamente, il bagno - che come un morto mitologico continua a inghiottire e a sputar fuori vite umane.

Immaginiamo uno scrittore alieno, che sorvoli col disco volante la nostra Terra e assista allo spettacolo, desideroso di raccontare ai propri simili: nello stesso mare decine di migliaia di persone trovano refrigerio mentre decine di migliaia di altre persone trovano la morte. 

Immaginiamo anche che questo scrittore sia una persona responsabile e coscenziosa, e non si accontenti di sottolineare il contrasto, ma voglia andare a fondo di quello che poi dovrà raccontare ad altri. Dovrà domandarsi: gli uni e gli altri pensavano allo stesso modo? Vedevano le cose allo stesso modo?

Chi, tornato dalla spiaggia, assiste alla TV alle immagini di morte che ci vengono servite ogni giorno, pensa: quelle erano persone come me, quei bambini morti erano come i miei bambini, quelle donne erano come mia moglie, mia madre.

Sono sicuro che tanti fra noi hanno pensato e pensano queste cose. Eppure è difficile che, alla fine, a dispetto delle migliori intenzioni, non prevalgano l'abitudine e, spesso, il cinismo. Affinché non vincano la stanchezza e l'abitudine, una cosa infatti è necessaria più di altre: la conoscenza. Lo scrittore alieno se lo chiederà senz'altro: che cosa sa questa gente? Che idea dell'uomo si è fatta?

Solo la tensione alla conoscenza degli altri, della loro diversità, della loro non-omogabilità al nostro modo di vivere pensare sentire, può generare vera solidarietà, vera compassione. 

Alberto Moravia, ancora giovanissimo, si ammalò di tubercolosi e per molti mesi stette in ospedale ad aspettare di morire, dimenticato (sembra) anche dai suoi famigliari. Poi, non morì, e divenne un celebre romanziere vinse premi, ebbe molti onori, amori, sorrisi. Ma la sua idea della natura umana rimase quella nata nella solitudine e nell'abbandono, e non mutò mai più. 

Anche gli uomini costretti con la forza ad affrontare il mare su imbarcazioni fatiscenti hanno un pensiero, un modo di guardare a se stessi e ai propri simili, molto diverso dal nostro. Dobbiamo provare a conoscerli, e per conoscerli è necessario rischiare, mettersi in gioco, accettare il pericolo. 

Il guaio è che la nostra civiltà ha smesso da troppo tempo di chiedersi cos'è un uomo. Se lo sono chiesto tutti i popoli antichi, i faraoni, i filosofi, i profeti, i guerrieri, i santi, gli avventurieri, i grandi criminali, i papi. 

Poi - colpa forse della shoah, o di Hiroschima, o della televisione, chissà - è come se questa domanda fosse annegata o soffocata dentro qualche barcone, seppellita da miliardi di reportage, di immagini, di filmati, di indiscrezioni, di supposizioni, di teoremi geopolitici e, da ultimo, dal nostro silenzio pieno di imbarazzo.

Fonte:  Luca Doninelli - GdB

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