martedì 26 agosto 2014

CASO' MARO', TUTTA LA VERITA' SUI NOSTRI DUE SOLDATI ILLECITAMENTE TRATTENUTI IN INDIA! INTERVISTA AL QUOTIDIANO "IL TEMPO" ED ESTRATTO DAL LIBRO "MARO', LE VOCI DEI PROTAGONISTI"…

ESTRATTO DAL LIBRO "Marò: le voci dei protagonisti", di Carla Isabella Elena Cace (per gentile concessione dell’editore “Pagine")




(…)

Ambasciatore Terzi, lei ha seguito il caso sin dalle primissime fasi in qualità di Ministro degli Esteri. Ce ne vuole parlare?

  Appena ho avuto notizia di questo incidente, avvenuto fuori dalle acque territoriali indiane (come riconosciuto successivamente dalla sentenza della Corte Suprema indiana del 18 febbraio 2013) e della richiesta della Guardia Costiera indiana di far invertire la rotta alla Enrica Lexie per indirizzarla verso il porto di Kochi, ho subito detto che la nave non doveva assolutamente lasciare le acque internazionali. Mi è apparso subito evidente che dovevamo tenere la nostra nave e i nostri militari in sicurezza: in acque internazionali la giurisdizione italiana sulla propria nave di bandiera era incontestabile . Gli indiani non avrebbero potuto in alcun modo agire con un atto di forza in alto mare. Modificando invece una situazione di fatto favorevole alla nave e ai nostri militari italiani avremmo corso gravi rischi. Mandai immediatamente una e-mail urgente al mio Capo di Gabinetto chiedendogli di sottolineare immediatamente questa posizione al Ministero della Difesa. Mi era perfettamente chiaro che la Farnesina non aveva certo autorità o titolo per “dare istruzioni” in un ambito rientrante nella catena di comando militare: una linea gerarchica costituita da Squadra Navale, Comando Operativo Interforze fino ad arrivare al Ministro della Difesa, come si deduce dalla normativa che regola la presenza dei nuclei militari di protezione (Vessel Protection Detachment) a bordo delle navi mercantili. Mi era tuttavia immediatamente apparsa la necessità di rappresentare con nettezza alla Difesa una valutazione di fondamentale buon senso, maturata in base all’esperienza dalla Farnesina nella gestione di numerose crisi riguardanti nostri connazionali all’estero nelle quali la “situazione di fatto” influisce spesso, sin dall’inizio, assai più delle azioni diplomatiche e legali che poi seguono. La risposta che mi arrivò subito mi sorprese e mi irritò: mi riferirono che l’incidente non era “appena avvenuto”, ma che si era verificato diverse ore prima, e che la nave aveva già invertito la rotta, eseguendo ordini e indicazioni del Ministero della Difesa, perciò si trovava, nel momento in cui mi era stata fatta la prima comunicazione già circondata da unità della Guardia Costiera indiana, e molto vicino al porto di Kochi. Chiesi subito copia di tutte le comunicazioni intercorse tra Unità di Crisi della Farnesina e Autorità militari, e dovetti constatare con estremo disappunto il fatto che il Ministero della Difesa aveva informato l’Unità di Crisi della Farnesina soltanto parecchie ore dopo, tutto questo risulta agli atti dei Ministeri interessati (…)
 
Ma allora si può ipotizzare che ci sia stato un preciso “disegno”, per come si sono svolti i fatti?
(…) La volontarietà di tenere all’oscuro il Ministero degli Esteri è uno di quegli aspetti sul quale mi auguro che faccia piena luce una Commissione parlamentare d’inchiesta (…) Per la lunga esperienza che ho dei processi decisionali interni alle Amministrazioni dello Stato, mi sembra inimmaginabile che una decisione di questa rilevanza sia stata presa unicamente a livelli intermedi. Sono invece convinto, e non sono certo il solo, che essa sia stata presa ai livelli più elevati della catena di comando (…) Questo è stato il punto: l’aver gestito l’immediato seguito di un incidente, che può sempre avvenire, senza prestare la massima attenzione alla tutela dell’immunità funzionale e della sicurezza dei nostri militari. Prima di consegnarli ad un’autorità di polizia straniera bisognava porsi il problema con estrema serietà (…)”.
 

Quindi il ministro della Difesa, il Comando Operativo Interforze e la Squadra Navale sono i primi responsabili di questo disastro…
Non è un’impressione. E’ scritto nelle carte, gli atti lo documentano. Tra l’altro, nell’ottobre del 2012, proprio il Ministro della Difesa Di Paola ,rispondendo all’interrogazione del senatore Domenico Gramazio conferma che l’autorizzazione era stata data dal suo Ministero, condendo la ricostruzione dei fatti con considerazioni e giustificazioni piuttosto “acrobatiche” (…)
 

Lei si recò pochi giorni dopo il 15 febbraio in India.
(…) Mi recai a Kochi, per dare pubblicamente all’India la il segnale dell’elevatissima priorità politica che la questione dei nostri Maro’ aveva per il Governo e per l’intero Paese. Feci il punto della situazione con il team che stava lavorando al caso. Proprio in quel momento stavano emergendo attriti nella effettuazione della perizia balistica, perche’ gli indiani contrastavano la presenza dei nostri esperti nelle rilevazioni tecniche. Fu una visita utile: in primo luogo perché consentì di rafforzare la tesi che i Marò potessero e dovessero essere giudicati soltanto in Italia; in secondo luogo perché apparve evidente alle autorita’ indiane, a seguito delle mie pressioni durante la visita, che non era nemmeno immaginabile che i nostri Maro’ venissero messi in un carcere del Kerala, come inizialmente gli indiani volevano fare. Si ottenne che essi fossero sistemati in una guest house, in area si’ sorvegliata ma con la possibilità di una presenza continuativa dell’addetto militare da Nuova Delhi e assistenti delle nostre Forze Armate. Inoltre poterono mantenere la divisa in riconoscimento del loro status militare (…)
 

Come trovò i due marò quando passò del tempo con loro?
Ho sempre constatato in Massimiliano Latorre e Salvatore Girone una forza morale straordinaria. Sono due uomini di grande carattere, assoluta dedizione al servizio dello Stato e di un grandissimo attaccamento alla Patria e al loro contingente. Ritengo siano il simbolo della fierezza e dell’orgoglio italiano e anche della grandissima qualità degli uomini che noi impegniamo nelle Forze di Pace. Per questo ho sempre considerato fondamentale il Paese e per la nostra politica estera trovare una soluzione che li riporti a casa (…)
 

Un Momento molto delicato della vicenda fu quando annunciò la decisione di trattenere i Marò in permesso in Italia. Ma dopo qualche giorno lei stesso informò del loro rientro e si dimise. Cosa accadde realmente?
La questione è molto semplice e tutto quello che ora ricostruisco è ampiamente documentato da lettere e comunicazioni ufficiali che sono state via via analizzate anche da trasmissioni televisive, dibattiti e interviste. Il primo ritorno dei nostri sottoufficiali in Italia, il cosiddetto “congedo natalizio” a fine 2012, lo avevo ottenuto personalmente a seguito di una conversazione con il mio “omologo” indiano Salman Khurshid, come gesto simbolico di buona predisposizione e di distensione dell’India nei confronti dell’Italia per il prosieguo di questa vicenda. Lo ottenemmo sulla base di un affidavit, che poi venne replicato anche per la licenza elettorale del febbraio-marzo successivo. Nell’affidavit avevamo inserito una clausola importante che la disinformazione della stampa governativa della fine-governo Monti ha cercato di occultare e confondere. Con l’affidavit il governo italiano s’impegnava, tramite l’ambasciatore a Nuova Delhi, a fare “tutto il possibile” per far tornare i marò in India alla fine della licenza nell’ambito delle sue prerogative e dei suoi poteri costituzionali. Questo era un passaggio chiarissimo anche per gli indiani che lo avevano accettato. Ciò significava che se la magistratura italiana, presso la quale erano aperti da inizio novembre 2012 due procedimenti penali per l’incidente che veniva addebitato a Latorre e Girone (uno presso la Procura militare e uno presso quella ordinaria), avesse trattenuto il passaporto ed emanato delle misure cautelari nei confronti dei due uomini, impedendo che ripartissero dall’Italia per tutto il periodo delle indagini e del processo in Italia, nessuno avrebbe potuto dire nulla. Al primo rientro dei due Marò, mi attivai con il Presidente del Consiglio affinché si svolgesse un’opera di sensibilizzazione della Procura di Roma, come avvenuto in altri casi, ad esempio quelli Lozano e Baraldini. Il mio obiettivo era l’attivazione della magistratura e di conseguenza il trattenimento dei due marò almeno fino ad una sentenza che ne accertasse la responsabilità o meno per l’incidente che eravamo certi fosse avvenuto in acque internazionali (…)
 

E quando tornarono la seconda volta, quindi?
Il dato certo è che quando tornarono la seconda volta, per il permesso elettorale, vi fu una serrata concertazione fra tutte le diverse Istituzioni coinvolte per capire se l’impegno per rimandarli in India dopo le votazioni politiche tenesse ancora, essendo sopravvenuta violazione indiana alla Convenzione sul Diritto del Mare (…) Vi era stato un nuovo importante sviluppo tra il primo ritorno di Latorre e Girone in dicembre e quello di fine febbraio. Il 18 gennaio, infatti, la Corte Suprema indiana aveva emanato una sentenza sul ricorso intrapreso dai legali di Latorre e Girone (…) Qualcosa nella sentenza della Corte, fu a nostro favore. Per la Corte Suprema l’incidente nel quale era incorsa la Lexie configurava un’azione antipirateria avvenuta al di fuori delle acque territoriali indiane e quindi, era coperta dall’articolo 100 del Trattato UNCLOS (la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare). Ciò è molto importante anzitutto perché la Corte Suprema indiana riconosceva l’applicabilità della convenzione UNCLOS alla controversia fra Italia e India. In secondo luogo, perche menzionava l’ articolo 100 ,che prevede delle consultazioni bilaterali tra i due Paesi in vista di una soluzione diplomatica. Se la Convenzione Unclos deve essere applicata, come dicono gli stessi indiani, allora entra in campo l’arbitrato quando le consultazioni bilaterali non hanno dato nessun esito, come infatti è avvenuto da due anni a questa parte. L’Arbitrato può essere di due tipi: consensuale se i due Paesi nominano di comune accordo i loro arbitri; obbligatorio se una delle due parti non accetta l’arbitrato. La nazione che accetta l’arbitrato, a discapito di chi lo rifiuta, può chiedere la nomina d’ufficio e procedere comunque. In quel febbraio del 2013, dunque, dopo consultazioni interministeriali molto approfondite si decise di chiedere formalmente all’India l’attivazione di un arbitrato consensuale. L’India rispose, che non voleva saperne e reiterò questa risposta negativa ripetutamente. A quel punto, dinanzi ad un atteggiamento indiano completamente negativo, il Governo italiano annunciò di voler trattenere in Italia i marò fino a che l’Arbitrato obbligatorio, che parallelamente stavamo attivando, non avesse stabilito quale Paese avesse giurisdizione. Decidemmo altresì di attivare tutte le sedi internazionali spiegando quello che era avvenuto e chiedendo sostegno: l’Italia riteneva che l’India avesse disatteso impegni previsti dalla convenzione UNCLOS e reiterati dalla stessa Corte Suprema (…)
 

Quindi, almeno fino a questo punto, nel governo sono tutti d’accordo nel trattenere i marò in Italia. Cosa succede poi?
Tutti eravamo d’accordo, al punto che facciamo un comunicato del Governo in due occasioni diverse, a distanza di una settimana di tempo. Il primo l’11 marzo e il secondo il 18 marzo a nome dell’intero Esecutivo, pubblicati anche sul sito della Presidenza del Consiglio, in cui si spiegava quello che ho appena esposto non soltanto ai cittadini italiani, ma anche agli indiani e a tutto il mondo. Lo inviamo, infatti, a 150 sedi su tutta la rete diplomatica e lo spiegammo a Ban Ki Moon. I toni indiani ovviamente a quel punto montano, con dichiarazioni della signora Sonia Gandhi, leader del partito del Congresso, ma tutto questo era scontato e previsto. Era evidente che ci sarebbe stato un po’ di ‘teatro’ perché ormai i due marò non erano più in mano indiana, e si era ribaltata la situazione di fatto. Tra l’altro tutte queste preoccupazioni legalistiche, compreso l’affidavit, erano perfino pleonastiche perché i due marò erano stati presi dall’India con l’inganno. Se anche li avessimo riportati a casa con altri mezzi, si sarebbe pur sempre trattato di un’operazione imposta dallo stato di necessità: quello di tutelare nostri uomini in divisa, senza lasciarli, come nessun Paese serio fa, “dietro le linee”. Tornando ai fatti, i Comunicati del Governo furono seguiti dal reintegro immediato dei due fucilieri nei rispettivi reparti. Le loro famiglie e tutti gli italiani erano molto soddisfatti per la soluzione di un dossier cosi’ delicato, mentre la vicenda – cosa importante - veniva ricomposta sui binari del Diritto internazionale: si apriva formalmente una controversia fra due grandi Paesi; sarebbe stata gestita in modo civile , con tutti i dettami della legalità, senza forzature e colpi di mano. Il 21 marzo, dal nulla, parte invece una convocazione del Presidente del Consiglio per una riunione ristretta e riservata dei ministri più interessati alla vicenda. Avevo avuto sentore che uno scivolamento si stava verificando perché il giorno precedente alla convocazione avevo ricevuto un paio di telefonate nelle quali mi si allertava che un collega di governo si stava agitando freneticamente perché temeva per gli interessi economici in India e riteneva che i due marò dovessero essere rispediti indietro immediatamente. Quindi mi preparai a sostenere con tutto il dovuto vigore in sede di discussione la validità di una linea che era stata sino a quel punto fortemente condivisa soprattutto dai Ministri della Difesa e della Giustizia, oltre che da Presidente del Consiglio. Con profonda tristezza, mi resi conto che nessuno, oltre a me, era disposto a confermare la linea collegialmente decisa dal Governo poche settimane prima e messa in atto dinanzi all’intera Comunità internazionale sino al giorno prima. Nonostante la mia netta opposizione ci si rivide la mattinata successiva, e lì la decisione era stata presa. Già il 21 sera, comprendendo che il Governo stava facendo qualcosa di incredibile, qualcosa che molti definiscono subito come la nuova ‘Caporetto’ o l’8 settembre della nostra Diplomazia, inviai una comunicazione formale scritta in cui esponevo le mie considerazioni di ferma contrarietà a questa vicenda (…). Questa lettera non ottenne nessuna risposta e, il giorno dopo, sappiamo quello che è successo: il Ministro della Difesa Di Paola e il sottosegretario de Mistura si recarono a convincere Latorre e Girone affinché ripartissero; dando loro assicurazioni, a quanto mi risulta, che si sarebbe trattato di una permanenza in India di poche settimane e poi il caso sarebbe stato risolto. Sappiamo invece cosa è successo. Le garanzie non c’erano. Per più di un anno si è discusso persino sul fatto se la pena di morte potesse essere applicata o meno. Il governo indiano addirittura smentì su questo punto la Presidenza del Consiglio in maniera a dir poco imbarazzante. Ecco perché decisi di dare le dimissioni. Provai un grande dolore nel constatare di dover rappresentare nel mondo un Paese che si comportava dando così scarso valore alla propria Sovranita’ e interesse nazionale. E lo dico dopo 40 anni di servizio diplomatico in una Carriera che si è sempre battuta per tenere alto il nome dell’Italia e degli italiani nel mondo
 

E’ passato più di un anno da quei momenti. Cosa è stato fatto?
Non è stato fatto assolutamente nulla...


(il seguito dell’intervista all’Ambasciatore Terzi, oltre ai contributi degli altre importanti personalità intervistate su questo delicato è importante dossier, è disponibile sul libro di Carla Cace dal titolo "Marò: le voci dei protagonisti", ordinabile in libreria, editore "Pagine” (pagg. 150, Euro 16,00)


Fonte:  https://www.facebook.com/ambasciatoregiulioterzi?fref=photo

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